Antonio Tabucchi

I Treni Che Vanno a Madras

Antonio Tabucchi

I Treni Che Vanno a Madras

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I treni che da Bombay vanno a Madras partono dalla Victoria Station. La mia guida assicurava che una partenza dalla Victoria Station vale da sola un viaggio in India, e questa era la prima motivazione che mi aveva fatto preferire il treno all’ aereo. La mia guida era un libretto un po’ eccentrico che dava consigli perfettamente incongrui, e io lo stavo seguendo alla lettera. Il fatto era che anche il mio viaggio era perfettamente incongruo, dunque quello era il libro fatto apposta per me. Trattava il viaggiatore non come un predone avido di immagini stereotipe al quale si consigliano tre o quattro itinerari obbligatori, come nei grandi musei visitati di corsa; ma alla stregua di un essere vagante e illogico, disponibile all’ ozio e all’ errore. Con l’ aereo, diceva, farete un viaggio comodo e rapido, ma salterete l’ India dei villaggi e dei paesaggi indimenticabili. Con i treni di lunga percorrenza vi sottoporrete al rischio di soste fuori programma e potrete anche arrivare un giorno più tardi del previsto, ma vedrete la vera India. Però, se avrete la fortuna di prendere il treno giusto, sarà puntualissimo e confortevole, avrete cibo eccellente e un servizio perfetto, e un biglietto di prima classe vi costerà meno della metà di un biglietto aereo. E poi non dimenticate che sui treni indiani si possono fare gli incontri più imprevedibili.

Queste ultime considerazioni mi avevano definitivamente convinto; e forse mi era anche capitata la fortuna del treno giusto. Avevo attraversato paesaggi di rara bellezza, o comunque indimenticabili per l’ umanità che avevo visto; il vagone era di un conforto eccezionale, l’ aria condizionata gradevole, il servizio impeccabile. Stava calando il crepuscolo e il treno attraversava un paesaggio di montagne rosse e scabre. Il servitore entrò con uno spuntino su un vassoio di legno laccato, mi porse una salvietta umida, mi versò il tè, mi informò con discrezione che ci trovavamo nel centro dell’ India. Mentre mangiavo sistemò la mia cuccetta, specificò che il vagone ristorante restava aperto fino alla mezzanotte e che se desideravo cenare nel mio scompartimento bastava suonassi il campanello. Lo ringraziai con una piccola mancia e gli restituii il vassoio vuoto. Poi restai a fumare guardando dal finestrino quel panorama ignoto, pensando al mio strano itinerario. Andare a Madras a visitare la Società Teosofica, per un agnostico, e per di più fare due giorni di treno, era un’ impresa che probabilmente sarebbe piaciuta agli strambi autori della mia stramba guida di viaggio. Ma la verità era che una persona della Società Teosofica mi avrebbe potuto fornire un’ informazione alla quale tenevo moltissimo. Era una tenue speranza, forse un’ illusione, e non volevo bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo: preferivo cullarla e assaporarla con un certo agio, come si ama fare con le speranze alle quali teniamo molto e che sappiamo hanno poche possibilità di realizzarsi.

La frenata del treno mi strappò alle mie considerazioni, forse al mio torpore. Probabilmente mi ero appisolato per qualche minuto e il treno era già entrato in una stazione, senza che potessi leggere il nome sul cartello. Avevo letto sulla guida che una delle fermate intermedie era Mangalore, o forse Bangalore, non ricordavo bene, ma ora non avevo voglia di mettermi nuovamente a sfogliare il libro per cercare l’ itinerario della strada ferrata. Sotto la pensilina c’ erano rari viaggiatori: indiani vestiti all’ occidentale dall’ aspetto di persone facoltose, un gruppo di donne, alcuni facchini affaccendati. Doveva essere una città importante e industrializzata. In lontananza, oltre i binari, si vedevano le ciminiere di una fabbrica, grandi edifici e viali alberati.

L’ uomo entrò mentre il treno si stava rimettendo in movimento. Mi salutò frettolosamente, verificò che il numero della cuccetta libera corrispondesse a quello del suo biglietto e dopo avere constatato che non c’ erano errori mi chiese scusa dell’ intrusione. Era un europeo di una grassezza flaccida, portava un completo blu abbastanza fuori luogo dato il clima e un cappello elegante. Come bagaglio aveva soltanto una valigetta ventiquattrore di cuoio nero. Si sedette al suo posto, trasse di tasca un fazzoletto candido e si pulì con cura gli occhiali da vista, sorridendo. Aveva un’ aria affabile ma riservata, quasi compunta. “Anche lei va a Madras?”, mi chiese senza aspettare la mia risposta, “questo treno è molto puntuale, arriveremo domani mattina alle sette”.

 Parlava un buon inglese con accento tedesco, ma non mi parve tedesco. Olandese, mi venne da pensare senza sapere perchè, o forse svizzero. Aveva l’ aria di un uomo d’ affari, così a prima vista pareva sulla sessantina, ma forse era più vecchio. “Madras è la capitale dell’ India dravidica”, aggiunse, “se non c’ è mai stato avrà cose straordinarie da vedere”. Parlava con la disinvoltura un po’ distaccata degli europei che conoscono l’ India, e mi preparai a una conversazione basata sulle banalità. Decisi che era opportuno informarlo che potevamo cenare nel vagone ristorante, preferendo intercalare i prevedibili luoghi comuni dell’ inevitabile dialogo con i necessari silenzi previsti da un pasto consumato civilmente.

Mentre camminavamo nel corridoio mi presentai scusandomi per la distrazione di non averlo fatto prima. “Oh, le presentazioni sono diventate una formalità inutile, ormai”, affermò con la sua aria affabile. Accennò un lieve inchino con la testa. “Mi chiamo Peter”, concluse.

A cena si dimostrò un esperto prezioso. Mi sconsigliò le cotolette vegetali sulle quali mi stavo orientando per pura curiosità, “perchè i vegetali devono essere molto variati e lavorati”, disse, “ed è difficile che ciò possa verificarsi nelle cucine di un treno”. Tentai timidamente altri cibi a caso, suscitando sempre la sua disapprovazione. Alla fine acconsentii al tandoor che egli aveva scelto per sè, “perchè l’ agnello è un cibo nobile e sacrificale, e gli indiani hanno il senso della ritualità del cibo”.

Parlammo molto delle civiltà dravidiche, anzi parlò quasi sempre lui, perchè i miei interventi si limitavano alle domande tipiche dell’ inesperto, a qualche timida obiezione, perlopiù al consenso incondizionato. Mi descrisse con dovizia di dettagli i rilievi rupestri di Kancheepuram e l’ architettura dello Shore Temple, mi parlò di culti arcaici e ignoti, estranei al panteismo induista, come quello delle aquile bianche di Mahabalipuram; del significato dei colori, dei riti funebri, delle caste. Gli esposi con qualche esitazione quello che sapevo: le mie conoscenze della penetrazione europea sulle coste del Tamil; parlai della leggenda del martirio di San Tommaso a Madras, del fallito tentativo dei portoghesi di fondare un’ altra Goa su quelle coste, delle loro guerre con i reami locali, dei francesi di Pondicherry. Egli completò le mie informazioni e corresse certe mie inesattezze sulle dinastie indigene citando nomi, date, luoghi e avvenimenti. Parlava con sicurezza e competenza, e la sua erudizione denotava una vastità di conoscenze che lo facevano supporre un esperto qualificato, forse un professore universitario o uno studioso illustre. Glielo chiesi in modo diretto, con una certa ingenuità, sicuro di una risposta affermativa. Egli sorrise non senza finta modestia e scosse il capo. “Solo un semplice amatore”, disse, “è una passione che il destino mi ha invitato a coltivare”.

La sua voce aveva una nota struggente, mi parve, come un rimpianto o una pena. I suoi occhi erano lustri, e il volto glabro pareva più pallido sotto la luce del vagone ristorante. Aveva mani delicate e i gesti stanchi. C’ era una sorta di incompiutezza, nel suo aspetto, qualcosa di dimidiato, ma era difficile dire che cosa: pensai a qualcosa di infermo e di nascosto, come una vergogna.

Tornammo nel nostro scompartimento continuando a conversare, ma ora la sua verve si era affievolita e il nostro colloquio era intercalato da lunghi silenzi. Mentre ci disponevamo a prepararci per la notte, solo per dire qualcosa, senza una ragione specifica, gli chiesi perchè viaggiasse in treno, piuttosto che in aereo. Pensavo che per una persona della sua età sarebbe stato più agevole e comodo usare l’ aereo, invece di sottoporsi a un viaggio così lungo; e probabilmente mi aspettavo la confessione del timore di un simile mezzo di trasporto, come a volte accade a persone che non vi furono abituate nella giovinezza.

Il signor Peter mi guardò perplesso, come se non ci avesse mai pensato. Poi si illuminò all’ improvviso e disse: “Con l’ aereo si fanno viaggi comodi e rapidi, ma si salta la vera India. Certo con i treni che fanno lunghi percorsi c’ è il rischio di arrivare anche con un giorno di ritardo; ma se si ha la fortuna di indovinare il treno giusto si può fare un viaggio molto confortevole e arrivare con estrema puntualità. E poi sul treno c’ è sempre il piacere di una conversazione che l’ aereo non permette”.

Fu più forte di me e mormorai: “India, a travel survival kit”.

“Come?”, disse lui.

“Niente”, risposi, “mi era venuto in mente un libro”. E poi dissi con sicurezza: “Lei non è mai stato a Madras”.

Il signor Peter mi guardò con candore. “Per conoscere un luogo non è sempre necessario esserci stati”, affermò. Si tolse la giacca e le scarpe, infilò la sua valigetta sotto il cuscino, tirò la tenda della sua cuccetta e mi augurò la buona notte.

Avrei voluto dirgli che anche lui aveva una tenue speranza, e per questo aveva preso il treno: perchè preferiva cullarla e assaporarla a lungo, invece di bruciarla nel breve spazio di un viaggio aereo, ne ero certo. Ma naturalmente non dissi niente, spensi la luce centrale, lasciai la veilleuse azzurra, tirai la mia tenda e gli augurai la buona notte.

*    *    *

Svegliò il fastidio della luce accesa all’ improvviso e una voce che chiedeva qualcosa. Dal finestrino si vedeva una baracca di tavole rischiarate da una luce fioca, con un cartello incomprensibile. Il controllore era accompagnato da un poliziotto molto scuro dall’ aria sospettosa. “Stiamo entrando nel paese Tamil Nadu”, disse il controllore con un sorriso, “è una pura formalità”. Il poliziotto tese la mano e disse: “Documenti, prego”.

Guardò il mio passaporto con aria distratta e lo richiuse subito. Sul documento del signor Peter si trattenne con maggiore attenzione. Mentre lo esaminava mi accorsi che era un passaporto israeliano. “Mister… Shi… mail?”, sillabò faticosamente il poliziotto.

 “Schlemil”, corresse il mio compagno di viaggio, “Peter Schlemil”.

Il poliziotto ci restituì i documenti, spense la luce e si accomiatò freddamente. Il treno aveva ripreso a correre attraverso la notte indiana, la luce della lampada azzurra creava un’ atmosfera di sogno, restammo a lungo in silenzio, poi alla fine io parlai. “Lei non può avere questo nome”, dissi, “esiste un solo Peter Schlemil, è un’ invenzione di Chamisso, e lei lo sa perfettamente. Una cosa del genere va bene per un poliziotto indiano”.

Il mio compagno di viaggio non rispose. Poi mi chiese: “Le piace Thomas Mann?”

“Non tutto”, risposi.

“Che cosa?”

 “I racconti, alcuni romanzi brevi. Tonio Krger, Morte a Venezia”.

“Non so se conosce una prefazione al Peter Schlemil”, disse lui, “è un testo ammirevole”.

Il silenzio cadde di nuovo. Pensai che il mio compagno si fosse addormentato, ma non poteva essere, certo. Aspettava solo che parlassi io, e io parlai.

“Che cosa va a fare a Madras?”

Il mio compagno di viaggio non rispose subito. Tossì leggermente. “Vado a vedere una statua”, sussurrò.

“E’ un lungo viaggio, per vedere una statua”.

Il mio compagno non rispose. Si soffiò il naso a più riprese. “Voglio raccontarle una piccola storia”, disse poi, “ho voglia di raccontarle una piccola storia”. Parlava sommessamente e la sua voce mi giungeva attutita da dietro la tenda. “Molti anni fa, in Germania, conobbi un uomo. Era un medico, e doveva visitarmi. Stava seduto dietro una scrivania e io stavo in piedi nudo davanti a lui. Dietro di me c’ era una fila di altri uomini nudi che egli doveva visitare. Quando ci avevano condotti in quel luogo ci avevano detto che noi servivamo al progresso della scienza tedesca. Accanto al medico c’ erano due guardie armate e un infermiere che riempiva delle schede. Egli ci poneva delle domande precise concernenti le nostre funzioni virili, l’ infermiere procedeva a certe analisi sui nostri corpi, e poi scriveva. La fila procedeva svelta, perchè quel medico aveva fretta. Quando avevo già superato il mio turno, invece di proseguire verso la stanza in cui ci conducevano, indugiai qualche attimo, perchè il mio sguardo fu attratto da una statuetta che il medico teneva sulla scrivania. Era la riproduzione di una divinità orientale, ma io non l’ avevo mai vista. Rappresentava una figura danzante, con le braccia e le gambe in posizioni armoniche e divergenti iscritte in un circolo. C’ erano solo pochi spazi aperti in quel circolo, piccoli vuoti che aspettavano di essere chiusi dall’ immaginazione di chi lo guardava. Il medico si accorse del mio rapimento e sorrise. Aveva una bocca sottile e beffarda. “Questa statua rappresenta il circolo vitale”, disse, “nel quale tutte le scorie devono entrare per raggiungere la forma superiore della vita che è la bellezza. Le auguro che nel ciclo biologico previsto dalla filosofia che concepì questa statua lei possa avere, in un’ altra vita, un gradino superiore a quello che le è toccato nella sua vita attuale”.

Il mio compagno di viaggio tacque. Nonostante il rumore del treno potevo avvertire perfettamente la sua respirazione pausata e profonda.

“Vada avanti, la prego”, dissi.

“Non c’ è molto da aggiungere”, disse lui, “quella statua era l’ immagine di Shiva danzante, ma io allora non lo sapevo. Come vede non sono ancora entrato nel circolo del riciclaggio vitale, e la mia interpretazione di quella figura è un’ altra. Ci ho pensato ogni giorno, è l’ unica cosa a cui ho pensato in tutti questi anni”.

“Quanti anni sono passati?”

 “Quaranta”.

 “Si può pensare a una sola cosa per quaranta anni?”

 “Credo di sì, se si è provata su di noi la turpitudine”.

 “E quale è la sua interpretazione di quella figura?”

 “Credo che essa non rappresenti affatto il circolo vitale. Rappresenta semplicemente la danza della vita”.

“In che cosa consiste la differenza?”, chiesi io.

 “Oh, è molto diverso”, sussurrò il signor Peter. “La vita è un cerchio. C’ è un giorno in cui il cerchio si chiude, e noi non sappiamo quale”. Si soffiò di nuovo il naso e poi disse: “E ora mi scusi, sono stanco, se permette vorrei cercare di dormire”.

*    *    *

Svegliai nei dintorni di Madras. Il mio compagno di viaggioera già rasato e pronto nel suo impeccabile vestito blu. Aveva un’ aria riposata e sorridente, aveva rialzato la sua cuccetta e mi indicava il vassoio della colazione posato sul tavolo accanto al finestrino.

 “Ho aspettato che si svegliasse per prendere il tè insieme”, disse. “Non ho voluto disturbarla, dormiva così bene”.

Entrai nello stanzino del lavabo e feci rapidamente la toeletta mattutina, raccolsi le mie cose, sistemai il mio bagaglio e mi sedetti davanti alla colazione. Cominciavamo a percorrere un luogo abitato, una zona di villaggi popolosi con le prime avvisaglie di città.

“Come vede siamo in perfetto orario”, disse il mio compagno, “sono le sette meno un quarto”. Piegò con cura il suo tovagliolo. “Mi piacerebbe che anche lei andasse a vedere quella statua”, aggiunse, “si trova nel museo di Madras. Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa”. Si alzò in piedi e prese la sua valigetta. Mi tese la mano e mi salutò col suo tono affabile. “Sono grato alla mia guida di viaggio che consigliava questo mezzo di trasporto”, disse, “è vero che sui treni indiani si possono fare gli incontri più inattesi: la sua compagnia è stata per me un piacere e un conforto”.

 “E’ un piacere reciproco”, replicai, “sono io che sono grato ai consigli della mia guida”.

Stavamo entrando nella stazione, davanti a un marciapiede brulicante di folla. Il treno azionò i freni e il convoglio si fermò dolcemente. Gli cedetti il passo ed egli scese per primo, facendomi un cenno di saluto con la mano. Mentre si allontanava lo chiamai e lui si voltò.

“Non so dove potrei eventualmente comunicarle la mia opinione”, gridai, “non ho il suo indirizzo”.

Lui tornò sui suoi passi, con quell’ aria perplessa che già gli conoscevo, e riflettè un istante. “Mi lasci un messaggio all’ American Express”, disse, “passerò a raccoglierlo”.

Poi ciascuno di noi si perse tra la folla.

*    *    *

Madras restai solo tre giorni. Furono giorni intensi, quasi febbrili. Madras è una città enorme di case basse e di immensi spazi incolti, ingorgata da un traffico di biciclette, di autobus sconnessi e di animali; per percorrerla da una punta all’ altra ci vuole molto tempo. Assolti gli obblighi che mi aspettavano mi restò un solo giorno di libertà, e al museo preferii una visita ai rilievi rupestri di Kancheepuram, che distano molti chilometri dalla città. La mia guida, anche in quell’ occasione, si rivelò una preziosa compagnia.

La mattina del quarto giorno mi trovavo in una stazione degli autobus che fanno il percorso per il Kerala e per Goa. Mancava un’ ora alla partenza, faceva un caldo torrido e le pensiline dell’ enorme hangar della stazione erano l’ unico rifugio contro la calura delle strade. Per ingannare l’ attesa comprai il giornale in lingua inglese di Madras. Era un giornale di appena quattro fogli, dall’ aspetto di giornale di parrocchia, con molti annunci di ogni specie, riassunti di film popolari, cronaca cittadina. In prima pagina, con molto rilievo, c’ era la notizia di un omicidio avvenuto il giorno precedente. La vittima era un cittadino di nazionalità argentina che viveva a Madras dal 1958. Era descritto come un signore schivo e discreto, senza amicizie, settantenne, che viveva in una villetta nel quartiere residenziale di Adyar. La moglie era deceduta tre anni prima per cause naturali. Non avevano figli.

Era stato ucciso con un colpo di pistola al cuore. Era un omicidio apparentemente inspiegabile, perchè l’ assassino non aveva agito a scopo di furto. La casa risultava in ordine, senza tracce di scassi. L’ articolo descriveva l’ abitazione come una residenza semplice e sobria, con alcuni pezzi d’ arte di buon gusto e un piccolo giardino. Pareva che la vittima fosse un intenditore di arte dravidica; il giornale menzionava alcuni servigi resi nella catalogazione del locale museo e riportava la fotografia di uno sconosciuto: il viso di un vecchio calvo, con gli occhi chiari e la bocca sottile. Era una descrizione neutra e anodina. L’ unico particolare curioso era la fotografia di una statuetta abbinata al volto della vittima. Si trattava certo di un abbinamento plausibile, perchè la vittima era un intenditore di arte dravidica e la danza di Shiva è il pezzo più noto del museo di Madras, una specie di simbolo. Ma quell’ accostamento plausibile suscitò in me un altro accostamento. Mancavano ancora venti minuti alla partenza, cercai un telefono e feci il numero dell’ American Express. Mi rispose una signorina gentile. “Vorrei lasciare un messaggio per il signor Schlemil”, dissi. La signorina mi pregò di attendere un attimo e poi disse: “Per il momento non abbiamo nessuna persona con un recapito a questo nome, ma se lo desidera può lasciare ugualmente il suo messaggio, gli sarà consegnato appena passerà”.

 “Pronto, pronto”, ripetè la telefonista che non sentiva più la mia voce.

 “Un attimo, signorina”, dissi, “mi lasci riflettere un attimo”.

Che cosa potevo dire? Pensai al ridicolo del mio messaggio. Forse che avevo capito? E che cosa? Che per qualcuno il cerchio si era chiuso?

“Non ha importanza”, dissi, “ho cambiato idea”. E riattaccai.

*    *    *

Non escludo che la mia immaginazione abbia lavorato più del consentito. Ma se avessi indovinato quale era l’ ombra che il signor Schlemil aveva perduto; e se mai gli capitasse di leggere questo racconto, per lo stesso strano caso che ci fece incontrare quella sera in treno, vorrei che gli giungesse il mio saluto. E la mia pena.


 

I Treni Che Vanno a Madras by Antonio Tabucchi. Copyright © Antonio Tabucchi, used by permission of The Wylie Agency (UK) Limited.

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