Giuseppe Berto

La ragazza va in Calabria

Giuseppe Berto

La ragazza va in Calabria

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Mentre aspettava che gli riempissero il serbatoio di benzina ad uno dei tanti distributori che si trovano all’inizio della Cassia uscendo da Firenze, l’avvocato Adami continuò a guardare la ragazzetta in camiciotto azzurro e blue-jeans, ferma sul bordo della strada, poco più avanti. Era piuttosto lunga ed esile, coi capelli di un biondo slavato tenuti sciolti, e aveva un grosso sacco da montagna ai piedi. Certo una straniera, forse una nordica, di quelle che vanno in giro per l’Europa a colpi di autostop. Ma doveva essere timida, o altrimenti incredibilmente pigra, perché si lasciava passar davanti le macchine senza fare il gesto abituale di chi chiede un passaggio. Neppure all’avvocato Adami essa fece alcun cenno, ma egli ,mosso da una specie di misericordiosa sollecitudine, fermo egualmente la macchina e, aprendo lo sportello per invitarla, chiese:

“Roma?”

La ragazzetta forse non era ne timida ne pigra, ma solo prudente: gli mise addosso due occhi molto chiari, del colore che ha il mare nelle giornate senza vento, e lo studio con enorme serietà, prima di decidersi a rispondere di sì con la testa. Poi si raccolse tutta sul sedile, il più possibile lontana da lui, e sembrò ancor più piccola, col viso minuto e a dire la verità anche poco espressivo, come spesso lo hanno le nordiche, e due braccine magre magre, arrossate dal sole.

L’avvocato Adami non era un dongiovanni, ossia un seduttore di pochi scrupoli, tuttavia, poiché era convinto di esserlo stato in gioventù, gli rimaneva la pacifica consapevolezza che, all’occorrenza, non gli sarebbe mancato il fascino, e tantomeno la pratica ,necessari per conquistare una donna. Naturalmente, l’idea di impiegare fascino e pratica con la ragazzetta che aveva appena caricata non gli passava neanche lontanamente per il cervello e invero, con la massima rettitudine, egli pensava più che altro a sua figlia, a come sarebbe stata quando fosse cresciuta. Questa qui poteva avere quattordici o quindici anni, ed era bellina e gentile. Ebbene, non gli sarebbe affatto dispiaciuto se sua figlia, tra una decina d’anni, fosse stata come lei, ossia altrettanto bellina e gentile, ma certo non l’avrebbe lasciata andare in giro sola per il mondo, a rischio che capitasse nelle mani di qualche mascalzone. Non senza intimo compiacimento, riferito si capisce alla propria virtù, egli pensò che lui stesso avrebbe potuto essere un mascalzone se, di fronte a lei tanto giovane e apparentemente tanto pura, non fosse stato frenato da un senso di responsabilità diciamo pure paterna.

L’avvocato si sentiva dunque eccezionalmente a posto con la coscienza, ma, appunto perché era così pulito e ben disposto, avrebbe gradito che la ragazzetta si mostrasse un po’ più fiduciosa, e ad esempio gli rispondesse con un sorriso quando lui si voltava a sorriderle, e invece quella se ne stava finché mai contegnosa ed appartata nel suo angolo, e non sembrava propensa ad alcun genere di confidenza, ciò che alla lunga poteva anche diventare offensivo, nel senso che era possibile interpretarlo come manifestazione di dubbi e sospetti che egli, in fondo, e sia pure per caso, non si meritava.

A San Casciano, al caffè che sta proprio in cima alla salita, si ferme un momento per comprarle un sacchetto di caramelle. Alle volte i bambini si conquistano così, con cose da nulla, e infatti lei gli sorrise finalmente, quando lui le mise in mano le caramelle, ma subito dopo tornò a rimettersi per conto suo, con la differenza che ora sgranocchiava caramelle. La strada scendeva dal coline di San Casciano, una curva dopo l’altra, e sugli alberi le cicale cantavano, nell’aria scaldata dal sole, e la valle di fronte era ampia, con infinite tonalità di verde e di giallo, e casali sparsi sui colli, ciascuno coi propri pennacchi di cipressi, e l’avvocato, che per una transitoria condizione dello spirito si sentiva quasi commosso da tanta bellezza, era spiacente che la ragazzetta scesa dal nord non se ne rendesse conto, come sembrava. «Do you speak English?» le chiese.

«Yes» essa rispose con grande tranquillità.

L’avvocato accenne vagamente alla valle. «Beautiful Italy» disse.

La ragazzetta si servì d’un cenno del capo per affermare che era sostanzialmente d’accordo, e non era molto come incoraggiamento alla conversazione, ma l’avvocato pensò che le cose fossero ormai avviate, e le spiegò che lui abitava a Roma, e aveva una bambina di quattro anni, che si chiamava Gisella, e cominciò anche a dire che non gli sarebbe affatto dispiaciuto se sua figlia, una volta cresciuta, fosse stata come lei, ma questo era un concetto troppo complicato per il suo inglese, e ben presto s’incagliò, e allora le chiese, in francese, se sapesse parlare francese, e lei rispose sì, naturalmente. Così intraprese a spiegarle, in francese, che lui abitava a Roma, che aveva una figlia che si chiamava Gisella, e che non gli sarebbe affatto dispiaciuto eccetera eccetera, ma neppure in francese quel concetto difficile, per non dire astruso, riusciva a saltar fuori, e lei lo guardava lottare con le lingue straniere, e la sua faccia non era più scipita, ora, ma impertinente e allegra, e alla fine gli disse, in un italiano appena un po’ più molle del nostro, che lui poteva anche parlare in italiano, se preferiva, perché lei studiava in un collegio di Firenze, e pertanto l’italiano lo conosceva benissimo.

L’avvocato ebbe, non senza fondamento, l’impressione che la ragazzetta si fosse un po’ divertita alle sue spalle, con la questione delle lingue straniere, e gliene venne una sorta di rancore, non molto forte si capisce, però bastante perché egli si sentisse incoraggiato ad immaginare di trattarla con minori riguardi di quanto non avesse fatto finora. Infatti, proprio per la spinta che solo un larvato risentimento poteva dargli, egli, avvicinandosi all’abitato di Poggibonsi, ebbe il seguente pensiero: se questa smorfiosetta avesse qualche anno di più, ora, invece di tirar dritto per Roma, girerei a destra e la porterei a San Gimignano, che è un posto che piace alle straniere e ci potrebbe scappar fuori qualcosa. Quanti anni di più? Ecco, sinceramente, la faccenda dell’età era un punto delicato. A lui le ragazze piacevano giovani, anzi giovanissime si sarebbe potuto affermare, però data anche la professione curiale che esercitava, non era certo il tipo da compromettersi con una ragazzina di quindici anni, benché, a guardarla bene, questa qui di anni ne potesse avere facilmente sedici o addirittura diciassette. Santo cielo, e se ne avesse avuti diciassette? Con le nordiche non si può mai sapere: si sviluppano tardi e conservano una loro aria virginale anche dopo che la verginità l’hanno perduta da un pezzo .Se avesse avuto diciassette anni, l’affare si presentava modificato, per non dire capovolto. Però non poteva averne tanti. A diciassette anni una ragazza, accanto ad un uomo che, per quanto un po’ al di là della quarantina, non è certo mancanto di attrattive, non si comporta così, cioè con quella staccata, contegnosa serietà che la ragazzetta manteneva pur sgranocchiando le caramelle. L’avvocato concluse che la sua tentazione di girare a destra, verso un luogo così favorevole agli amori come San Gimignano, non era nient’altro che una bizzarra fantasticheria, non era il caso di insistere su simili desideri in contrasto col codice penale, e infatti egli, giunto a Poggibonsi, proseguì bravamente per la Cassia, e la strada, uscita dal paese, andava di nuovo tra viti e ulivi, con molte curve. L’avvocato ora si sentiva soddisfatto, come chi ha appena compiuto ciò che in genere si definisce una buona azione, però, sventuratamente, egli non era uno di quei tipi che trovano un perfetto appagamento nell’esercizio della virtù, e pertanto, in fondo all’animo, gli rimaneva anche un po’ di rimpianto per San Gimignano, per quella particolare atmosfera fuori del tempo, capace di liberarci dai pregiudizi della nostra epoca. Che si trattasse di pregiudizi e di sciocche fisime moralistiche, l’avvocato non aveva dubbio. Chi mai al tempo del Boccaccio, tanto per dire, o dell’Aretino — ed erano, ora ce ne accorgiamo bene, tempi civilissimi — chi mai dunque sarebbe allora arretrato di fronte ad un’avventura del genere di quella che gli si stava offrendo? A quei tempi ne accadevano ben di peggio, senza che nessuno se ne meravigliasse, o che si andasse a scomodare per questo il codice penale.

«A che ora arriveremo a Roma?» chiese inaspettatamente la ragazzetta.

Era una domanda qualsiasi, forse la più naturale che si potesse fare, date le circostanze, ma capitò in un momento in cui l’avvocato, preso dalla nostalgia di ciò che avrebbe potuto combinare se fosse venuto al mondo in un’epoca qualsiasi anteriore alla Controriforma, era piuttosto ombroso. «Perché?» chiese a sua volta. «Hai qualcuno che ti aspetta?»

Lei lo guardò con un’espressione quasi aggressiva, buffa nel suo viso minuto, e perseverò con le domande. «E lei? Non ha nessuno?»

All’avvocato venne da ridere. «Mia figlia» rispose.

«Se c’e una figlia, ci sarà anche la madre della figlia» osservò giudiziosamente la ragazzetta. «In Italia non c’e il divorzio.»

Be’. che le importava se c’era o no il divorzio? E che voleva da lui, intendeva forse provocarlo? Per ciò che la riguardava, egli avrebbe potuto essere indifferentemente separato, o bigamo, o anche vedovo. Gli venne per un momento la voglia di farle credere che era, appunto, vedovo, ma poi preferì comportarsi da galantuomo. «Sì, ho anche una moglie» rispose con fierezza. E poi aggiunse, senza fierezza: «Purtroppo.»

La ragazzetta fu lesta a buttarsi sull’ultima parola: «Perché purtroppo? Tutti gli italiani dicono così.»

Questa volta l’avvocato s’indispettì sul serio. «Non mi curo degli altri italiani» ribatté secco. «Io sono anarchico, individualista. dico purtroppo e lo sostengo. Con mia moglie sono anni che non vado d’accordo, e se potessi tornare indietro…» S’interruppe perché si sentiva troppo miserabile. Un uomo sposato puo mentire in questo modo, e solitamente lo fa, soltanto in vista di un tornaconto concreto, ossia quando si tratta di ricorrere a ragionamenti di carattere emotivo per abbattere le remore residue di una donna che sta per cadere. Ma lì, con quella ragazzetta slavata, pelle e ossa, e soprattutto al disotto dell’età legale, quale tornaconto ci poteva essere? Fu pieno di malevolenza verso di lei, come se sua fosse stata la colpa di quel piccolo slittamento in un’infruttuosa ipocrisia, e in un certo senso lo era, colpa sua, perché nessuno l’aveva autorizzata ad essere indiscreta e addirittura provocatoria, e il meno che si potesse pensare di lei era che aveva avuto una cattiva educazione, nonostante il collegio.

Ma non riusciva a rimanere in collera, e d’altra parte, quelle sue domande ed osservazioni apparentemente insolenti non potevano, dopo tutto, essere la prova di un accresciuto interesse per lui? Le ragazzette sulla pubescenza sono particolarmente sensibili al fascino degli uomini sui quaranta, egli lo sapeva sia per dottrina che per pratica, dato che anche la figlia del portiere del palazzo dove lui abitava, una ragazza appunto quindicenne, ma a differenza di questa fin troppo formata, di fronte a lui arrossiva e s’impappinava facendo mile smorfie, e insomma dava a vedere in molti modi d’essere segretamente innamorata. Certo, questa qui non era la figlia del portiere, tuttavia, come cosa in sé, nulla vietava che potesse innamorarsi di lui, e sarebbe stato un fatto bellissimo, anche se, naturalmente, egli non ne avrebbe approfittato in alcun modo, neppure per accarezzarle il collo o darle un bacio a bocca chiusa. L’avrebbe rispettata in qualsiasi caso, perfino se, ad esempio, lei ad un certo momento gli si fosse spontaneamente offerta, cosa che però era quanto mai improbabile, poiché la ragazzetta, dopo quell’indiscreta esplosione d’interesse per il suo stato di famiglia, era tornata a rincantucciarsi nel suo angolo, dove terminava di sgranocchiare una caramella con un’astratta, malinconica gravità. Che avesse fame? All’avvocato piacque pensarlo, poiché ciò lo distoglieva almeno un poco dalle fantasie colpevoli e alquanto morbose che avevano tenuto occupata la sua mente durante gli ultimi chilometri, e siccome stava proprio entrando in Siena, decise che le avrebbe offerto un cappuccino con le paste.

Portò la macchina in piazza e la fermò al bar che si trova di fronte al Palazzo della Signoria. Il sole scottava, e c’era gente soltanto nelle zone in ombra, meno gli stranieri che giravano nella canicola con le macchine fotografiche e i cappelli di paglia appena comprati, ammirando i monumenti. Si sedettero sotto la tenda del bar, dove si aveva l’impressione che facesse meno caldo, e l’avvocato, benché fosse in ritardo con l’orario di marcia, si sentiva contento d’averla portata lì, in quella piazza meravigliosa, e aveva un’aria come se l’avesse costruita tutta lui. Quando venne il cameriere, lei ordinò una bottiglia di birra tedesca. «Non ti farà male?» egli le chiese.

«Male?» essa rispose alzando le spalle, e poi domandò graziosamente scusa e si alzò, entrando nel bar. Non era ancora tornata quando il cameriere venne con la birra e il caffè che l’avvocato si era ordinato. Egli aspettò un poco, ma poi si decise a bere il caffè prima che si raffreddasse del tutto, e lei ancora non tornava. L’avvocato pensava con fastidio che non sarebbe arrivato a Roma all’ora di colazione, come aveva promesso a sua moglie, e pensava anche che, se non ci fosse stato il sacco di montagna della ragazzetta dentro la macchina, egli l’avrebbe piantata lì a Siena, come si meritava. In fondo, prenderla su era stato soltanto un’imprudenza, e niente di buono gliene sarebbe potuto derivare, e non era affatto esagerato dire che egli ne fosse già pentito, come succede sempre delle buone azioni che si compiono senza prospettiva di profitto. Ma poi, quando lei finalmente riapparve, tutto ciò ch’egli stava pensando rimase di colpo cancellato per lasciare il posto a qualcosa che si potrebbe anche chiamare incantamento: si era data il rossetto sulla bocca, s’era tirata su i capelli in una crocchia in cima alla testa, e, col camiciotto infilato dentro i pantaloni, esibiva la vita stretta, i fianchi asciutti e in più, teneramente, quel po’ di seno che aveva. «Dimmi la verità» egli le chiese quando gli riuscì di parlare. «Quanti anni hai?»

Essa bevette un lungo sorso di birra, poi si voltò verso di lui, con gli occhi che luccicavano di malizia. «Quasi venti» rispose.

Dopo Siena la Cassia va un po’ vagando per il paesaggio cretoso, scende nelle valli e subito risale sulle colline dall’altra parte, apparentemente senza molta necessità, come curve strette e spesso complicate, alle quali l’avvocato arrivava addosso prima di rendersene conto, poiché guidava piuttosto nervosamente. Il fatto era che l’avventura con la ragazza, diventata così all’improvviso possibile e anzi probabile, lo trovava ancora impreparato, e in un certo senso persino lo spaventava, per una quantità di ragioni. Il quesito primo e più grosso, egli non se lo nascondeva, era il seguente: valeva la pena di tradire la moglie, la madre di sua figlia, con una ragazza capitatagli per caso e per la quale in fondo, non poteva ancora nutrire alcun vero, profondo trasporto affettivo? Ebbene, onestamente, egli doveva rispondere di sì, che valeva la pena, e non tanto per un elementare confronto tra la ragazza e la moglie, che sarebbe stato sommamente ingeneroso e neppure del tutto giustificato, ma per la più generale considerazione che ad un uomo sui quaranta, anche se dotato di un fascino superiore alla media, non capita tutti i giorni di poter disporre di una creatura ventenne, bella, fresca, con un seno appena appena accennato ma senz’altro commovente, e così insolitamente bionda. Quando gli capita a tiro una cosa simile, di solito un uomo non se la lascia scappare, e infatti non è che l’avvocato avesse intenzione di lasciarsela scappare, però in una qualche segreta piega della sua coscienza sopravviveva un certo indeterminato disagio per la imminente infedeltà coniugale, e soprattutto a un tale disagio egli attribuiva la circostanza che, pur presentandosi la conquista oltremodo facile, in pratica non avrebbe saputo da che parte cominciare. Naturalmente, non era certo il caso che egli pensasse ad una sua propria per così dire deficienza tecnica, ma il fatto era che ora, a immaginare un contatto qualsiasi con quella ragazza, fosse pure il più semplice, si sentiva confuso, e probabilmente ancor più inibito di prima, quando credeva che fosse soltanto una ragazzetta. Era come se si trovasse di fronte ad una donna che lui aveva già conosciuta bambina, e che ora appariva di colpo cresciuta, ma non abbastanza trasformata da dimenticarsi di quando era bambina, e in conclusione egli non riusciva a liberarsi dal timore e dal rispetto che si deve all’innocenza infantile, e quasi gli dispiaceva che fosse cresciuta, sicché era pieno di scrupoli, ma anche pieno di stizza per quegli scrupoli che sopravvenivano nel momento meno opportuno. Era questo insieme di sentimenti che gli faceva prendere tanto male le curve.

La ragazza lo lasciò guidare come voleva per parecchi chilometri, ma poi, quando sulla salita di Radicofani la strada diventò pericolosa, chiese: «Perché va tanto forte? Ha fretta di arrivare a Roma?».

«No. E tu?» le chiese l’avvocato facendo però fatica a darle del tu.

«A me basta arrivare prima di mezzanotte.»

«Come mai prima di mezzanotte? »

«Alle undici e cinquanta parte il treno per la Calabria.»

«E tu vai in Calabria?»

«Sì.»

«Sola? »

«No, con un ragazzo.»

«Uno del tuo paese?»

«No, uno di Napoli. L’anno scorso siamo andati in Sicilia. Quest’anno andiamo in Calabria. Dicono che sia ancora più bella.»

L’avvocato soffrì per questa risposta più di quanto non fosse prevedibile, ma, com’egli quasi giustamente comprese analizzando il proprio stato d’animo, non si trattava di gelosia, o almeno non di gelosia com’è comunemente intesa, bensì del rammarico di non poter mettere se stesso al posto del ragazzo napoletano che sarebbe andato con lei in Calabria, neppure con la fantasia ci si poteva mettere, perché ormai era sposato, e d’altra parte la giovinezza per lui se n’era andata, la vita gli era venuta addosso con un soffocante carico di responsabilità e di affanni, non lasciando più spazio per gli amori che uscissero dai limiti di un’affrettata e conchiusa avventura. Di queste cose, in fondo, più che di un numero anche pesante di anni, era fatto il declino di un uomo.

Fu in un siffatto clima di accesa autocompassione che l’avvocato Adami, sentendosi in un certo qual modo autorizzato a cogliere nel suo giardino tutti i fiori che era ancora possibile cogliervi, pervenne alla conclusione che ogni ulteriore tentennamento da parte sua sarebbe stato fuori posto, e in altre parole che egli sarebbe stato una grande bestia se si fosse lasciata scappare quella ragazza piovutagli dal cielo.

Ad Acquapendente, sebbene non ve ne fosse proprio bisogno, si fermò per il rifornimento, e intanto da un albergo lì vicino telefonò alla moglie e le disse che un suo cliente di Firenze l’aveva incaricato di trattare l’acquisto di un fondo, perciò non sarebbe arrivato per colazione, e forse nemmeno per pranzo, ma lei non doveva darsi pensiero, perché di sicuro a mezzanotte sarebbe stato a casa.

Una volta liberatosi dai maggiori ostacoli psicologici che si opponevano all’avventura, l’avvocato Adami venne a trovarsi davanti a quella che i competenti di tauromachia chiamano l’ora della verità, quando il torero affronta il toro faccia a faccia, ma siccome non aveva dubbi circa la sproporzione di forze tra sè e la propria vittima, si sentiva del tutto tranquillo, e infatti ora non guidava più spericolatamente, bensì con eleganza briosa e ottimistica. La strada scendeva dalle alture di Acquapendente per infilarsi in quella specie di imbuto in fondo al quale giace il lago di Bolsena, ed era circa l’una del pomeriggio, il sole d’estate rendeva esauste tutte le cose, meno le cicale, che con impareggiabile ardore stridevano su ogni albero. La ragazza, forse a causa di quel caldo, rimaneva acquattata nel suo angolo dove prendeva meglio il vento del finestrino, e in complesso sembrava svagata, cioè non sospettosa, o perlomeno noncurante, di quanto le sarebbe pur accaduto prima di sera. Le nordiche, l’avvocato lo sapeva non meno degli altri, sono fatte così: pacate, riservate, magari freddine, ma al momento buono si danno con grande semplicità, come se fosse la cosa più naturale del mondo, e non è detto che non lo sia.

L’avvocato dunque, non aveva motivo d’impensierirsi per l’apparente riservatezza della ragazza, ma piuttosto meditava sulle difficoltà diciamo così logistiche della faccenda, che non si potevano trascurare, anche perché la piccola aveva meno di ventun anni, e questa era senz’altro una complicazione. Escludendo quindi un albergo per bene dove sarebbe avvenuto il fatto: in campagna dietro una siepe, in un bosco, in una camera di pensione clandestina, o in riva al mare? Al momento attuale tutto era possibile, perfino il mare, e infatti a Roma mancavano poco più di cento chilometri, ossia ci sarebbe arrivato verso le tre, e in un’altra ora poteva raggiungere Tor San Lorenzo, dove un suo amico pittore possedeva una specie di capanna sulla spiaggia, che serviva appunto per quelle faccende. L’unico inconveniente sarebbe stato non trovare il pittore a casa, per via della chiave, tuttavia, a parte questo, il mare si presentava come la soluzione non solo più prudente, ma anche migliore in senso assoluto, e lei in costume da bagno sarebbe stata sicuramente splendida, col suo lungo corpo da adolescente, sodo e contenuto. «Ce l’hai, il costume da bagno?» le chiese.

Distolta dalla sua distrazione, la ragazza sorrise per la domanda. «Certo che ce l’ho. In Calabria voglio fare molti bagni. Anche in Sicilia ho fatto sempre bagni.»

Un po’ seccato per quella forse involontaria allusione ad un passato e ad un futuro nei quali lui non entrava per nulla, l’avvocato disse con forza: «Anch’io ti porterò al mare». E siccome lei lo guardava sorpresa e vagamente interrogativa, spiegò: «Prima arriviamo a Roma e poi andiamo al mare. Ti dispiace?».

«Sarebbe bellissimo» lei sorrise con la consueta semplicità.

Ora l’avvocato aveva davanti agli occhi l’avventura in tutta la sua magnificenza, e non faceva fatica, guardando la ragazza, ad immaginarsela come sarebbe stata in costume da bagno, o addirittura senza, anche perché il vento che entrava dal finestrino, premendo contro il camiciotto, le metteva in giusto rilievo il petto, che appariva di misura senz’altro accettabile, e tale comunque da infondere tenerezza e altri sentimenti. E poiché non c’è nulla, quanto il fantasticare sull’amore, che renda l’animo impaziente di arrivare alla conclusione, o quantomeno ansioso di prendersi un ragionevole anticipo, l’avvocato cominciò a guardare la strada in cerca d’un posto conveniente dove fermarsi.

Quando la macchina fu ferma su di uno slargo da dove si poteva vedere, tra le querce, un pittoresco pezzo di lago, la ragazza, invece, di guardare il panorama, abbassò la testa come già consapevole, e lasciò che lui le passasse un braccio intorno ai fianchi, e la stringesse a sè e la baciasse sul collo lasciato scoperto dai capelli rialzati, e non oppose resistenza neanche dopo, quando lui le sollevò il viso e cominciò a baciarle la bocca, ma neppure rivelava alcuna forma di partecipazione, sicché alla fine di quel lungo bacio egli rimase piuttosto insoddisfatto, per non dire inasprito. Dal canto suo , lei non doveva trovarsi in migliori condizioni di spirito, e infatti s’era subito rimessa a testa bassa, senza fare o dire nulla.

«Non ti è piaciuto?» egli le chiese.

Ed essa domandò: «Perché l’hai fatto, perchè mi ami?».

La domanda, anche a volere tenere conto della probabile inesperienza della ragazza, era senz’altro intempestiva, e in realtà tutti sanno che per un bacio non è indispensabile tirare in ballo sentimenti impegnativi e definitivi come l’amore. Ora, l’avvocato non voleva pensare di averla baciata per semplice diletto o smania di conquista, e in effetti presentemente nessuno, nemmeno lui stesso, avrebbe potuto affermare che egli già non la amasse, almeno un poco, ma mettersi a parlare d’amore quasi ancora prima di cominciare era un po’ troppo rischioso. Ad ogni modo, se la prosecuzione dell’avventura doveva per forza dipendere da una piccola menzogna, l’avvocato era più che disposto a dirla. «Ti amo» affermò con la maggiore sincerità possibile.

«Tutti gli italiani dicono così» obiettò la ragazza senza alzare la testa.

Offeso nel suo sforzo d’essere onesto, l’avvocato stava per risponderle male, quando s’accorse di alcune gocce che cadevano sui pantaloni di lei e che, data la posizione e altre circostanze, non potevano essere che lacrime. «Piangi?» le chiese un poò stupidamente. «Che c’è da piangere?»

«Tu sei come gli altri» essa rispose tirando su col naso. «Ma non è questo che mi fa piangere. Piango perchè io sono come le altre, le straniere che vengono in Italia, per fare l’amore con gli italiani.» Si mise a piangere più forte. «Non è vero che sono come le altre» disse.

Egli se l’attirò a piangere sulla spalla, e le accarezzava anche i capelli, dolcemente, e le disse: «Non devi piangere, noi due siamo diversi», ma per quanto si sforzasse non gli veniva in mente alcun argomento per completare e spiegare la sua affermazione. Tuttavia ora, e non soltanto per un senso di vanità soddisfatta, cominciava a sentire che loro due erano davvero differenti dagli altri, gli pareva proprio che qualcosa di ineffabile gli si stesse insinuando nell’animo, e se non era giustamente amore certo gli somigliava, ma questo finiva per complicare parecchio la faccenda, sia perchè egli non poteva dimenticare che aveva una moglie a casa, sia perchè ben sapeva che la via sentimentale non è la più breve per raggiungere certi risultati, e lì non c’era di sicuro tempo da perdere. Forse bastava qualche bicchiere di vino d’Orvieto o di Montefiascone per riportare l’avventura nei facili e spensierati binari che le convenivano. «Hai fame?» chiese alla ragazza che ancora piangeva.

Essa rispose facilmente di sì, come una bambina.

«Allora andiamo. Ci fermeremo alla prima trattoria.»

«No, preferisco arrivare a Roma» essa rispose.

Poco più di un’ora dopo essi stavano seduti, molto vicini l’uno all’altra, sotto il pergolato di una di quelle trattorie che si trovano lungo la Cassia, all’estrema periferia di Roma, e l’avvocato poteva constatare quanto fosse stata esatta la sua previsione che sarebbe bastato un po’ di vino a scacciare ogni malinconia. Egli si sentiva nelle migliori condizioni fisiche e psichiche, e quanto alla ragazza, era a dir poco trasformata. Arrotolava con divertente imperizia le sue fettuccine al sugo intorno alla forchetta, e rideva, continuamente rideva chiedendo: «Mi ami? Dimmi che mi ami», ma senza pretendere da lui alcuna serietà nella risposta, come in un gioco.

 E lui le giurava di amarla, e di nuovo le versava da bere, e lei lo pregava di no, di non farla bere troppo, perché lo amava e perciò non voleva ubriacarsi, e si stringeva tutta a lui, tutta col suo piccolo corpo caldo e asciutto, e si baciavano, potevano farlo perchè non c’era nessun altro cliente a quell’ora sotto il pergolato, e il cameriere non badava a loro, intorpidito dal caldo e dalla speranza di una buona mancia. «Che faremo dopo?» essa chiedeva.

«Ti porterò al mare, in un posto che si chiama Tor San Lorenzo. Lì c’è una capanna…»

«Due cuori e una capanna» essa lo interrompeva meravigliosamente, perché aveva già un po’ troppo bevuto.

«È una capanna di fuori» egli spiegava. «Ma dentro è molto ben messa. C’è la doccia, una piccola cucina col frigorifero, e c’è un grande letto, con una coperta a fiori…»

«Un grande letto» essa ripeteva con sconcertante malizia, e lui si sentiva tutto in subbuglio, e tornavano a baciarsi. E dopo, con la bocca umida, stordita dal bacio, chiedeva: «E la chiave, ce l’hai la chiave?»

«No, ma telefonerò al mio amico…»

«Non gli hai già telefonato?»

«Sì, ma dormiva. Si sveglia alle quattro e mezzo. Alle quattro e mezzo gli ritelefono.»

«Alle quattro e mezzo» essa ripeteva, di colpo malinconica come se le pesasse l’attesa, o per chissà mai quale altra ragione. «Che ore sono?»

«Quasi le quattro.»

«Quasi le quattro» essa diceva, e diventava ancor più malinconica, finché imprevedibilmente si rimetteva a ridere e chiedeva: «Mi ami? Dimmi che mi ami».

E lui, pur comprendendo che tutto ciò non era che un generoso gioco, le rispondeva che la amava, Dio mio come la amava, e intanto che diceva questo già non capiva più se non avesse ormai superato i confini del gioco, poiché in effetti era come se la amasse sul serio, tutto di lei lo incantava, la giovinezza, la bellezza, la freschezza, e soprattutto la splendida capacità che aveva di combinare le cose più disparate, il pollo alla diavola e i baci, le lacrime e l’allegria, l’impudiciza con cui lo guardava quando parlavano di ciò che avrebbero fatto nella capanna al mare, e l’innocenza infantile che riaffiorava in lei non appena si distraeva a far qualcosa per conto suo, a guardare un gatto che veniva a cercare del cibo, o a giocare con le molliche di pane sulla tovaglia. «Che ore sono?» chiedeva.

«Le quattro e un quarto.»

Tornò a chiedere l’ora altre sei o sette volte, prima che fossero le quattro e mezzo, e rideva sempre meno, quasi che l’allegria venisse mano a mano soffocata dall’impazienza di arrivare al mare, ma poi, quando finalmente furono le quattro e mezzo, non voleva più che andasse a telefonare. «Aspetta un poco» diceva. «Ancora un poco.»

«Ma se aspetto può darsi che esca, e allora non troveremo più la chiave.»

«Ti prego, ancora un poco» essa ripeteva con dolorosa tristezza, e poteva anche darsi che si trovasse in un momento d’amore tanto acuto da preferire che tutto il resto dell’avventura andasse a monte pur di non separarsi da lui proprio in quel momento, e senza dubbio era un sentimento bello e commovente, questo, ma l’avvocato non dimenticava che era il resto dell’avventura ciò che maggiormente contava, e d’altra parte era stata lei a stuzzicarlo con le sue continue domande su quanto avrebbero fatto nella capanna, sicché non si capiva come mai ora volesse trattenerlo a rischio di perdere il meglio, e insomma, benchè continuasse a pensare che quella era la ragazza più straordinaria e meravigliosa che gli fosse mai capitata, e proprio per i suoi imprevedibili cambiamenti di tono e d’umore, egli ormai cominciava anche a chiedersi se non sarebbe stato più vantaggioso se gliene fosse capitata una un po’ meno complicata.

Quando furono le quattro e tre quarti, sebbene lei continuasse a pregarlo di aspettare ancora un poco, egli non le diede più ascolto ed entrò nella trattoria, dov’era il telefono.

L’amico pittore dormiva sempre, ma egli insistette con la domestica perchè lo svegliasse , e infatti quella lo svegliò, sicché il pittore, per il fatto d’essere stato svegliato nel bel mezzo di un afoso pomeriggio, venne all’apparecchio colmo di malumore e di puntigli. Cominciò con la pretesa d’essere informato per filo e per segno dell’identità della ragazza, e l’avvocato non sapeva dirgli altro se non che si chiamava Inge ed era svedese, sì, non di Stoccolma, di Lulea, una cittadina verso il Polo Nord, pareva, e allora il pittore a chiedergli dove mai l’avesse pescata, e poi volle anche che gliela descrivesse, e l’avvocato, benché irritato per la perdita di tempo, gliela descrisse lasciandosi prendere da un giustificato compiacimento, perchè in fondo c’era da far bella figura, e disse che non aveva neanche vent’anni ed era divina, magra ma non troppo, bionda da non poter immaginare, e sì, anche le gambe erano perfette, e il seno così e così, però le stava bene, non avrebbe potuto avere un seno diverso. Dopo che se l’ebbe fatta illlustrare ben bene, con la necessaria abbondanza di particolari, il pittore saltò fuori dicendo che voleva venire anche lui a Tor san Lorenzo, e l’avvocato dovette faticare parecchio per fargli capire che non era il caso, si trattava di una ragazza per bene, che si credeva, una collegiale, e se non si usava la massima discrezione si correva il rischio di rovinare tutto, e, per quanto gli ripugnasse rifarsi al passato, il pittore non doveva dimenticare che lui gli aveva fatto un sacco di piaceri, persfino difeso un paio di volte in tribunale senza chiedergli nulla in cambio, e se ora non gli dava la chiave non era un amico, e l’altro a ribattere che proprio lui non si comportava da amico, perché i veri amici dividono tutto, specialmente le ragazze, ma infine si lasciò convincere a consegnargli la chiave, però voleva che almeno gli facesse vedere quella tanto decantata svedese, quando fosse passato a prendersi la chiave.

L’avvocato uscì e non trovò la ragazza al suo posto, forse era andata alla toilette a rifarsi il viso dopo mangiato, e intanto egli chiese il conto, e aspettando si sedette, e naturalmente continuava a fantasticare intorno alla ragazza e al mare e alla capanna, e certo questa sarebbe stata la più bella avventura della sua vita, però la ragazza non si faceva vedere, poteva anche darsi che si fosse sentita male dentro la toilette, perché davvero aveva bevuto un po’ troppo, e certo sarebbe stata una grossa seccatura. «Ha visto la signorina che stava con me?» chiese al cameriere che tornava col conto.

Con una imperturbabilità che, dato il momento, poteva essere perfino insolente, quello fece un gesto verso la strada. «Se n’è andata» disse.

L’avvocato ebbe la prima stretta al cuore. Andata? E dove? E perché, soprattutto? Siccome il cameriere non sarebbe stato in grado di rispondere a questi tumultuosi interrogativi, l’avvocato si mosse con impulsiva vivacità verso la strada, oppure verso la macchina che stava parcata nel cortile, non lo sapeva nemmeno lui, ma il cameriere lo trattenne rispettosamente per un braccio: «Il conto, signore.»

Più che giusto. Ma fu proprio a causa di questa banale richiesta, che l’avvocato ebbe la seconda e non meno grave stretta al cuore, perchè non trovò il portafogli nella tasca posteriore dei pantaloni, dov’era solito collocarlo, né in nessun’altra tasca del suo vestito. Ora, almeno stando alle apparenze, la meravigliosa, unica avventura, così a lungo vagheggiata e predisposta, si riduceva ad una ruberia, un borseggio, una cosa penosa e ridicola allo stesso tempo, ma poiché momentaneamente non era in grado di afferrarne il lato ridicolo, l’avvocato si sentì preso da sacrosanto furore.

Mentre correva a rompicollo giù per quell’ultimo e assai difficile tratto della Cassia Vecchia che porta al piazzale di Ponte Milvio, all’ingresso di Roma, l’avvocato Adami era completamente dominato dalla voglia di strozzare la ragazza, e non soltanto per le settanta e più mila lire che il portafogli conteneva, ma per il fatto in sè che era di un’atrocità inaudita. Questo suo esorbitante impulso era quanto mai naturale, per non dire legittimo, ma egli stesso capiva che, per mandarlo ad effetto, era necessario innanzitutto rientrare in possesso della ragazza. Ora, le probabilità erano due: o lei aveva fermato una macchina di passaggio che l’aveva portata chissà dove in città, oppure era salita sull’autobus 201, che percorreva appunto la Cassia Vecchia, con capolinea al Ponte Milvio. Se l’avvocato Adami correva così a rompicollo per una strada senz’altro pericolosa e compresa entro i cartelli limitativi della velocità, non era tanto per dare sfogo alla soverchia eccitazione dell’animo, quanto per tentare di raggiungere e sorpassare uno di quegli autobus. Ci riuscì, infatti, e si piazzò al capolinea pronto ad aggredire la ragazza non appena fosse apparsa, senonché lei non usci da quell’autobus e nemmeno dal successivo, e il furore dell’avvocato, invece di placarsi, aumentava, e con esso cresceva, sia pure del tutto irragionevolmente, l’ostinazione di ritrovarla. L’avrebbe cercata per tutta Roma e in ogni caso a mezzanotte meno dieci l’avrebbe acciuffata al treno per la Calabria, benché, a pensarci bene, la storia della Calabria poteva anche essere una delle infinite balle che la ragazza aveva cacciato, e in realtà era pressoché assurdo che una delinquente d’un tal genere, per la quale il furto con destrezza doveva costituire una vera professione, gli avesse messo in mano il bandolo giusto per riprenderla. No, non rimaneva che cercarla per Roma, e fu con questo fermo proposito che l’avvocato rimise in moto la macchina e si introdusse in una città di due milioni d’abitanti, calda come un forno alla fine della giornata estiva.

L’assunto, secondo il modo di ragionare dell’avvocato, non era facile, ma neppure così insensatamente difficile come sarebbe potuto apparire ad altri meno esperti di lui, e infatti le ricerche potevano essere, seguendo il buon senso, ristrette a quella decina o poco più di post che glistranieri prediligono in Roma. Pur che quella delinquente sia straniera, pensò con amarezza l’avvocato, e infatti tutto poteva darsi, anche che fosse di Milano o di Venezia, ma no, l’Italia non produce né capelli così biondi né occhi così chiari, e in conclusione lui era certamente il primo cittadino italiano ad essere borseggiato in patria da una svedese. Bisognava per forza, anche dal punto di vista del prestigio nazionale, acchiapparla.

Procedendo con un piano organico, l’avvocato esplorò dapprima i dintorni di Castel Sant’Angelo e della Basilica di San Pietro, quindi salì sul colle del Gianicolo, di lì scese al Colosseo e ai Fori Imperiali, e quindi salì su di un altro colle, il Campidoglio, ovunque fermandosi a cercare con lo sguardo allucinato una ragazza in blue-jeans, esile e bionda, dalla falsa apparenza di ragazza per bene. Dal Campidoglio scese a Piazza Venezia, e poi progressivamente sfiduciato percorse parecchie vie e piazze del centro, ora piene di macchine e di gente uscita a prendere quel po’ di fresco che dava la sera. Passò anche dalla Posta Centrale che, pur non essendo un bel monumento, è uno dei luoghi più frequentati dagli stranieri, quindi riprese l’itinerario più propriamente turistico, visitando Piazza di Spagna e Piazza del Popolo, finché, essendo ormai l’ora del tramonto, gli venne in mente che la ladruncola poteva trovarsi sulla terrazza del Pincio, da dove si gode la visione di celebri tramonti, e dove un borsaiolo può sempre trovare un po’ di lavoro.

Il Pincio sembrava una fiera, tanto era pieno di folla, e di ragazze in modo particolare, ma nessuna portava i blue-jeans, e soprattutto nessuna era esile e bionda e col volto soave per una sorta di infantile innocenza, tanto soave nel ricordo che l’avvocato si lasciò suo malgrado prendere da una pungente nostalgia di lei, comunque fosse nel suo animo nero, e soltanto si chiedeva come mai Dio avesse permesso un così grave miscuglio tra bellezza di forme e depravazione morale, e richiamandosi a Dio egli in certo qual modo la scagionava almeno in parte delle sue colpe, e infatti gli pareva che ora, se gli fosse capitata a tiro, non l’avrebbe né strozzata né trascinata al più vicino commissariato di polizia, ma si sarebbe accontentato di capire come mai fosse tanto perversa, e una volta capito questo l’avrebbe lasciata andare, magari con le settanta e più mila lire. Ed ecco che per lui tutto era diventato amaro, nella sera che pur così dolcemente scendeva, e non soltanto a causa di lei, poichè lei in fondo non era che un simbolo delle troppe cose che al mondo sono sbagliate, e non si capisce neanche bene perché siano sbagliate.

Assolutamente pervaso da questa desolata concezione della vita e dell’universo intero, l’avvocato risalì in macchina, vagò un poco e quasi senza scopo per i viali di Villa Borghese, sentì come fiele metafisico l’acuto profumo dei tigli, vide sotto forma di mortale decadimento perfino i bambini che giocavano coi cani nei prati, e infine, soprattutto per sottrarsi a quelle delusioni che anche la natura sembrava dargli, si diresse a Porta Pinciana ed entrò nella via Veneto, a quell’ora splendente di luci e di insegne, intasata di automobili, e colma di gente che andava come in processione sui due marciapiedi ingombrati dai tavolini dei caffè. E fu proprio lì, in mezzo alla calca tra le due edicole di giornali, che egli, quando ormai non pensava più a lei come ad un’entità naturale, la vide, o meglio intravide una testa di capelli biondi, e dal tumulto di contrastanti sentimenti che all’improvviso lo prese si sentì subito certo che fosse lei, sicché senza pensarci due volte si buttò giù dalla macchina, si cacciò a spinte tra la folla, procedette come un forsennato finchè, prima ancora di raggiungerla, si accorse che la testa di capelli biondi non era quella di lei, neppure lontanamente quel biondo somigliava al biondo di lei, ma intanto egli aveva combinato un bel guaio perché mezza via Veneto era tutto uno strombazzare di clacson, e un vigile indignato che un incosciente avesse piantato la macchina in mezzo alla strada in un’ora di punta, soffiava nel fischietto come soffia il dio Eolo quando vuole suscitare tempeste.

L’avvocato ubbidì all’intimazione di spostare la macchina in una via laterale e lì, irosamente consapevole del rischio di finire in prigione per oltraggio a pubblico ufficiale, si apprestò ad attaccare una caparbia lite col vigile, non tanto perchè pensasse di avere un barlume di ragione, quanto perchè quell’accidente che gli capitava a coronamento di una giornata particolarmente infausta esorbitava davvero dalla quantità quotidiana di disgrazie che un uomo può ragionevolmente sopportare. Perciò, quando il vigile esordì chiedendogli se per caso non fosse matto, scattò come una molla gridando che egli, stimato professionista, non permetteva a nessuno di mettere in dubbio il suo equilibrio mentale, e il vigile doveva imparare a rispettare i cittadini che pagano le tasse, e facesse pure il suo dovere, se ci teneva, m senza tante storie, perchè lui non aveva tempo da perdere. Allora il vigile, con quel sorriso di superiorità che soltanto i potenti possiedono, si predispose a fargli perdere più tempo possibile, e cominciò con l’invitarlo ad esibire i documenti: libretto di circolazione e patente.

L’avvocato, che per il suo stesso mestiere aveva un senso abbastanza pronto della legge, capì di essersi cacciato in un grosso pasticcio, perché gli tornò di colpo alla memoria che la patente stava nel portafogli e il portafogli ormai lui non ce l’aveva più. Né poteva dire che glielo avevano rubato fra le tre e le quattro del pomeriggio, poichè, a parte i fastidi che gli sarebbero potuti venire dalla moglie qualora fosse venuta a conoscere certi particolari della vicenda, suo preciso dovere sarebbe stato denunciare il furto al più presto e spontaneamente.

L’avvocato, dopo un rapidissimo esame mentale della situazione, stabilì che per cavarsela nel migliore dei modi consentiti dalle circostanze, gli conveniva fare la commedia. Pertanto con gesto sicuro portò la destra alla tasca posteriore dei pantaloni per prendervi il portafogli, e subito assunse un’aria contrariata, ma più che altro stupita, come sorpreso di non trovarvelo. Poi, con abilità professionale, modificò leggermente la propria espressione, mettendovi una sfumatura di smarrimento, e intanto diceva a se stesso, però abbastanza forte per farsi udire dal vigile: «Strano, non trovo il portafogli…Poco fa ce l’avevo…Proprio non capisco…Non vorrei averlo perduto, c’era la patente, dentro…».

Il vigile aveva un ghigno di trionfo, e non era neanche improbabile che pensasse di aver a che fare, invece che con un avvocato, con un ladro di automobili. «Provi cercarla meglio» diceva senza nemmeno curarsi di mascherare la grossolana ironia. «Forse la troverà.»

L’avvocato ormai stava intrappolato in un giro di cose assurdo, che lui stesso aveva provocato. Drammaticamente, con crescente orgasmo, si frugò in tutte le tasche, sospirò e scosse la testa, perfino sorrise al vigile, cercando in disperato modo di smontare il malanimo, ma quello continuava a dire, con una faccia sempre più antipatica: «La cerchi, la cerchi meglio».

Allora l’avvocato, sentendosi come un pagliaccio e peggio di un verme, scese dalla macchina, si tolse la giacca facendo quasi vedere che sperava che il portafogli per miracolo gli uscisse da qualche parte, e siccome il vigile non sembrava ancora soddisfatto, si mise a frugare anche dentro la macchina, tra il sedile e lo schienale, e poi perfino sotto il sedile, e lì, neppure del tutto nascosto, egli rivide il suo portafogli, evidentemente gli era caduto dopo che aveva pagato la benzina ad Acquapendente, e dentro c’era tutto, la patente e le settanta e più mila lire.

Nascosto dietro uno dei pilastri che sorreggono la pensilina del marciapiede numero 7 alla Stazione Termini, l’avvocato vide arrivare, a mezzanotte meno un quarto, la ragazze esile e bionda, preceduta da un facchino che le portava il grosso sacco da montagna. Essa salì sulla vettura letto per Reggio Calabria, e quasi subito si affacciò al finestrino, e rimase affacciata per tutti i cinque minuti prima che il treno partisse. Guardando intorno malinconica, e forse anche un poco inquieta, come se aspettasse, ma senza molta speranza, che qualcuno venisse a salutarla.

L’avvocato attese dietro il pilastro finchè il treno non fu partito, poi uscì dalla stazione, prese la macchina e si avviò verso casa, cioè verso la moglie e la figlia e il suo conchiuso destino, ed era anche lui malinconico, ma con quel giusto carico di malinconia che ogni essere umano non può rifiutarsi di portare. Ora egli sapeva che la ragazza era davvero meravigliosa come lui aveva pensato che fosse, e se se n’era scappata in quello strano modo era perché per lei, anche per lei, quell’avventura cominciata quasi per scherzo aveva superato i limiti concessi ad un’avventura, e non era bene completarla, dovendo essa rimanere nel numero delle cose che non accadono, e che perciò hanno l’assoluta perfezione che le cose accadute non possono avere.

 


 

© Giuseppe Berto Estate. All rights reserved. Published by arrangement with The Italian Literary Agency, Milano, Italy.

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